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domenica 20 luglio 2014

LA ROTTAMAZIONE UNIVERSALE

di Alberto Asor Rosa da Il Manifesto 19-7-2014


Vorrei  cominciare questa volta  da lontano. All’inizio, più o meno  del 2013, nell’imminenza delle  ele- zioni politiche nazionali, presi l’iniziativa di stendere un appello a favore del voto al Pd e lo feci rapi- damente circolare (anche il testo di quell’appello sarebbe forse  da rileggere, per  capire di cosa allora si ragionava). Nello spazio di una  decina di giorni, lo “ritirai”, per  così dire, e lo ritrovai fir- mato, oltre che  da me, ovviamente, dalle  seguenti personalità intellettuali: Guido Rossi,  Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Claudio Magris, Barbara Spinelli, Tullio De Mauro, Vittorio  Gregotti, Andrea Camilleri, Natalia Aspesi,  Umberto Eco, Luigi Ferrajoli, Piero  Bevilacqua, Alberto Melloni, Giorgio  Parisi, Filippo  Gentiloni, Nadia Urbinati.

Sorprende, no? L’incredibile vastità e varietà dello  schieramento intellettuale qui rappresentato stava a significare, mi pare, due  cose:  l’insopportabilità del protrarsi del lercio  dominio berlus- coniano e la fiducia, evidente, anche se in taluni intimamente condizionata, nell’esperimento bers- aniano. Cos’era l’esperimento bersaniano? Era  il tentativo di creare in Italia un governo di autentico centro-sinistra, non eversivo antagonistico (figuriamoci), ma al tempo stesso non soggetto al pre- dominio straripante del grande capitalismo finanziario e dell’Europa bruxellensis, che  in sostanza con esso  coincideva.
Di quel  complesso di fattori, politici  e intellettuali, ma anche psicologici ed emotivi, che  aveva  spinto quel  gruppo di personalità a prendere siffatta posizione, ora,  dopo  appena un anno  e mezzo,  non resta nulla.

Non resta la coesione, sia pure provvisoria, certo, ma proprio perciò ancora più significativa, che  le aveva  spinte a stare insieme per  conseguire il medesimo obiettivo. Non resta neanche la minima traccia dell’obiettivo per  il quale avevano ritenuto in quel  momento di esporsi. Perché sia accaduto questo, bisogna che  in questo anno  e mezzo  sia precipitato sull’Italia un diluvio,  cui bisogna ora porre un argine, e ancor più un rimedio.
Già allora osservai che  impedire all’inequivocabile vincitore delle  elezioni, Pierluigi Bersani, di espe- rire  in Parlamento, cioè nella  sede propria, la ricerca della  propria maggioranza, avrebbe posto le premesse di uno svolgimento anomalo del gioco  politico in Italia. Siamo  infatti passati da allora, e in misura crescente, da un’anomalia all’altra, senza che,  a un certo punto, qualcuno dicesse: basta, così non si può andare avanti. L’esito  finale  di questo cumulo di anomalie è ciò che  ci sta  davanti e nel quale noi viviamo  (o, per  meglio  dire, corriamo il rischio di annegare).


Matteo Renzi è il frutto di questo cumulo di anomalie, di cui più che  essere il politico che  ne ha approfittato abilmente, rappresenta una  manifestazione esemplare, il personaggio tipico  e tipizzante più significativo.

Mi limiterò a indicare quelli  che  per  me sono  i quattro blocchi di problemi, con i quali  ci si misura ogni qualvolta s’intraprende una  disanima delle  sue  personalità e delle  sue  azioni.

1.  Renzi è un politico plebiscitario. E’, di conseguenza, un tipico  politico post-democratico, se la post-democrazia, come  sempre più spesso si sente ripetere, consiste nell’appello diretto al “popolo”  e nella  svalutazione degli  strumenti tradizionali del voto e della  rappresentanza. Tutto quello  che  propone o dispone — la riforma del Senato, la legge elettorale detta Italicum, l’aumento straordinario delle  firme  necessarie per  la presentazione dei referendum, ecc,  ecc,  — procede in questa direzione. Questa vera  e propria rimodellazione delle  strutture istituzionali esi- stenti, contempla però un altro aspetto forse  più importante del primo: e cioè il tentativo di
ridurre anche le forme  più rilevanti del “pubblico” (e cioè strutture e prerogative dello  stato, auto- nomie  istituzionali e funzionali dei diversi settori) dentro questo quadro. La struttura dello  Stato, rifondata faticosamente (e non senza, a dir la verità, aporie e insufficienze) dopo  la parentesi autoritaria del fascismo, allo scopo, fondamentalmente, d’impedire che  la politica se ne impadr- onisse e la governasse senza resistenze ai propri fini, viene  attaccata quotidianamente e prospet- ticamente da tutte le parti.
2.  Se questa è la direzione di marcia, ne consegue che  la politica formal-istituzionale di Renzi non ha più nulla  del tradizionale “animus” di centro-sinistra, che  ha caratterizzato la nostra esperienza democratica nel corso degli  ultimi  settant’anni. Non è, a dir la verità, neanche una  politica di centro-destra intesa anch’essa in senso tradizionale. E’ un tentativo, di tipo nuovo,  di mettere l’intero sistema al servizio di una  prospettiva di pseudo-razionalizzazione e pseudo-finzionamento del meccanismo statuale e istituzionale, che  elimini  quanto più possibile gli inconvenienti della discussione, della  trattativa parlamentare e, Dio mio che  noia!,  del conflitto. Ripeto: del conflitto


in tutte le sue  forme. I corpi  separati (e in qualche modo  autonomi) dello  Stato, le rappresentanze sindacali, la pretesa delle  forze  politiche (del resto, quali,  ormai?) di rappresentare interessi fuori della  norma, ecc.  ecc.,  costituiscono in questa visione  altrettante anomalie, che  ostacolano l’illuminata attività del Sovrano, che  dispone invece, come  dicevo,  di tutte le funzioni  prelimi- narmente considerate e razionalizzate.
3.  Siccome non esistono più interessi da rappresentare “valori”  da preservare, allora si può,  cam- min facendo, fare  accordi con i più sudici  degli  interlocutori, sempre in nome  della  razionaliz- zazione del sistema (e questo, poi, è solo quanto emerge alla superficie: che  dire, o, meglio, cosa immaginare di cosa  ci può essere sotto banco?). Questo vuol dire, mi pare, almeno una  cosa.  La politica non si misura più, bene o male,  con l’ethos.
4.  Quali differenze sostanziali, di comportamento e di obiettivi, passano ormai fra il cosiddetto centro-sinistra (Pd?) e il cosiddetto centro-destra? La verità è che  si sta  formando in Italia, sulla base delle  procedure di razionalizzazione e centralizzazione perseguite da Matteo Renzi,  un polo brutalmente unificante, totalmente inedito, e orientato costituzionalmente a portare, come  dicevo, alla cancellazione del conflitto e a un governo saggio, unitario, benevolente, ormai fuori  dal gioco delle  azioni  e reazioni che  una  volta  si dicevano “democratiche”. Non più il modello europeo dell’alternanza (per  quanto anche l’ì…): è il modello italiano, che  introietta la possibile alternanza dentro la pacificata sintesi degli  (pretesi, certo, ormai solo pretesi) opposti. Per  conseguirne
senza il pericolo di ritorni di fiamma la definitiva leadership, Matteo Renzi ha bisogno di dimo- strare presto, molto  presto, di esserne capace. Per  questo si è inventato due  o tre  riforme istituz- ionali  della  cui esigenza e coerenza è lecito  fortemente dubitare, per  poter andare subito al sodo. Il resto verrà più avanti: per  ora  lascia che  i suoi fedelissimi comincino a parlare (in perfetta sint- onia  con il “vecchio” centro-destra)  dell’abolizione dell’articolo 18, del presidenzialismo… .

Se le cose  stanno così, ne discendono alcune conseguenze.

La prima è che  la versione corretta della  proposta renziana di rottamazione è quella di portata uni- versale, che  investe e travolge alle radici l’intero sistema. Questa è anche penso non contraddit- toriamente la sua  versione più nobile. Renzi vuole  rottamare l’intero sistema democratico italiano. E’ un’idea inaccettabile, ma è un’idea. Chi non è d’accordo deve  decidere subito di battere un’altra strada.

Per  trovare, rapidamente ed efficacemente, un’altra strada (o “ritrovarla”, come  scrive Rangeri), bisogna presto concludere che  il Pd a questo fine è perduto. Il Pd non è recuperabile, l’esperienza plebiscitaria di Renzi ne ha cambiato la natura. Siccome l’Uomo è uno che  non fa superstiti né prigionieri, la situazione non può che  peggiorare. Dunque, non è da dentro che  può venire anche solo un primo  abbozzo di risposta.

E da dove,  allora? Ho già scritto che  nulla,  in questa fase  politica (forse sempre) è possibile senza un partito. Un partito può essere, sulla  base di esperienze nel merito ormai secolari, anche cose  molto diverse l’una dall’altra. Sulle  forme, dunque, si potrebbero fare, soprattutto oggi,  ragionamenti diversificati, anche se, alla fine, per  tenerli insieme, complementari. Ma una  è irrinunciabile.  Biso- gna  essere d’accordo sugli  elementi fondamentali di una  strategia: obiettivi positivi  e obiettivi nega- tivi. Se ne potrebbe discutere per  un po’, serenamente.

Ma uno di questi prevalentemente negativo, ahimé, ma solo per  ora   è chiarissimo (e non
è poco):  sbarrare la strada all’esperimento renziano. A questo fine come  dire   bisognerebbe rinunciare da subito, e se possibile per  sempre, a quella caratteristica permanente della  sinistra insofferenza, che  è la puzza sotto il naso.

E cioè.  Se si parte dalle  cronache politiche di tutti i giorni, direi  che  esiste una  vasta zona,  che  va da forze  di sinistra ancora presenti nel Pd al nucleo più resistente di Sel a settori consistenti


dell’opinione pubblica e intellettuale, in cui si pensano cose  analoghe, se non addirittura coincidenti. E come  mai?  ma perché, secondo me, esiste oggi un enorme spazio in cui un antagonismo di sistema finisce per  coincidere con un riformismo radicale enormemente ricco  di contenuti e di potenziali tra- sformazioni (mi chiedo se, alla prova  dei fatti  non vi siamo  comprese anche organizzazioni che  si richiamano ancora all’idea comunista).


 E Tsipras? Ho un enorme rispetto per  l’esperimento, ma non credo che  da solo sia destinato a cre- scere fino a rappresentare un ostacolo serio, in Italia e in Europa, ai rischi incombenti. Del resto, anche da questo punto di vista,  molti intrecci e convergenze sono  ipotizzabili. Se infatti nel conflitto sono  attualmente in gioco  forme  diverse della  democrazia o della  post-democrazia, il nostro punto di riferimento è indubbiamente quello  di una  democrazia partecipativa, che  nasce dal basso e si dif- fonde  a rete sull’intera società. Perché allora non tentare di sperimentare questa linea  non in sepa- rata sede, bensì all’interno di una  situazione organizzativa di più vaste dimensioni e di comprovata esperienza, che  lo inglobi  e ne faccia il perno di tutta l’azione  di opposizione?

Appunto: opposizione. C’è un’opposizione in Italia? Se c’è, con i miei modesti strumenti di osserv- azione, non riesco ad accorgermene. Del resto, è logico.  Se non c’è sinistra, come  può esserci oppos- izione?  Allora si capisce perché l’atto  politico destinato a innescare un processo di questa natura sarebbe di per   di enorme importanza. In Italia, ripeto, non esiste per  ora  una  sinistra organizzata in grado di rappresentarsi in tutte le situazioni, istituzionali e sociali, come  elemento decisivo del confronto e del conflitto. Se proveremo a crearla, imboccheremo la nuova  strada. Se no, no.
E saranno dolori.


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